Una volta insegnare karate ai ragazzi era più semplice.
Nella maggior parte dei casi ti trovavi davanti a ragazzi arrabbiati che sfogavano tutto nell’allenamento e tu, attraverso il karate, insegnavi loro a gestire la rabbia, a incanalarla.
Oggi invece mi trovo spesso davanti a ragazzi spenti, che sembra non abbiano voglia di reagire e buona parte del mio lavoro sta nel cercare di riaccendere una fiammella che ormai è quasi soffocata.
Ormai la rabbia sembra diventata un tabù. Sembra che durante il processo di crescita a molti sia stato insegnato ad ammutolirla perché, di facciata, dobbiamo essere tutti amorevoli, comprensivi, ecc, ecc. Di facciata, ci tengo a sottolinearlo.
Ma la rabbia non è negativa a priori: dove c’è rabbia che passione e voglia di lottare. Bisogna solo sapere come gestire questa emozione.
E questo processo non è frutto di un’evoluzione dell’essere umano. È frutto di una sua castrazione che vuole privarlo di una sua parte e, per tanto, vuole negargli la sua completezza.
Perché ci piaccia o meno l’essere umano è fatto di luci e di ombre e se vuole cercare di essere completo deve imparare a conoscere ogni sua parte, anche quelle negative.
E questo è uno degli scopi più alti del karate.
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