Due giorni fa, mentre stavo facendo una ricerca su internet (e con ricerca intendo “cazzeggiare bellamente su facebook… 😀 ), mi sono imbattuto in un articolo interessante di kung-fu life che parlava di una ricerca effettuata dalla Rocky Mountain Application Training.
In questa ricerca sono stati presi degli esperti di arti marziali e messi di fronte ad un “picchiatore di strada”, protetto da varie protezioni e mascherato (insomma, il classico red-man) che ha inscenato un’aggressione partendo da un approccio verbale; i marzialisti non potevano reagire se non al contatto fisico.
Secondo questo test la maggior parte dei marzialisti non sarebbero stati in grado di mettere in pratica le loro conoscenze tecniche; soprattutto a causa della variabile psicologica che le arti marziali non insegnerebbero a gestire.
Dopo la descrizione dell’esperimento, l’articolo (che puoi leggere a questo link: http://www.kungfulife.net/blog/difesa-personale-un-incredibile-esperimento-scientifico) continua con un’analisi di quest’ultimo asserendo che il test sarebbe fallace in quanto:
- Il test è stato effettuato su diversi praticanti di arti marziali mentre, perché il test sia veritiero sarebbe dovuto essere fatto su “X persone che quindi differiscono solo per l’arte marziale praticata. Per il resto dovrebbero tutte avere lo stesso peso, lo stesso livello tecnico (non quantificabile perché trattasi di arti diverse), le stesse caratteristiche biopsicofisiche e sociali”;
- La conclusione del test sarebbe che se non hai una adeguata preparazione psicologica alla gestione della paura e dell’aggressività non sarai efficace, conclusione fallace in quanto le persone testate erano al corrente di quello che sarebbe successo e quindi la paura e l’aggressività erano ben lontane dall’essere quelle “della strada”;
- L’esperimento è stato fatto su un numero piccolo di persone e quindi non è valido.
Dopo aver riletto questo articolo più volte ed averci riflettuto un po’ sopra, ho pensato di dare un’altra lettura dell’esperimento, che diverge parecchio dall’analisi fatta da Mark Bonifati (chi mi conosce sa che sono contestatore folle! 😀 ).
Al contrario dell’autore dell’articolo citato credo, infatti, che l’esperimento fatto possa dare molti spunti di riflessione; convinto che un confronto, e non uno scontro, possa sempre arricchire tutti (praticanti, amatori, istruttori e maestri).
L’esperimento ha qualche valenza?
Ho cercato un po’ in rete e non sono riuscito a trovare nessuna descrizione dell’esperimento in quanto tale. Anche sul sito della scuola americana che l’ha condotto, la Rocky Mountain Combat Application Training, non si trova niente.
Non avendo quindi una descrizione accurata dell’esperimento e di come questo sia stato condotto risulta difficile capire se questo ha una qualche valenza oppure no; ma analizziamolo lo stesso perché l’argomento è comunque interessante da sviscerare.
Una critica che è stata mossa a questa iniziativa riguarda il numero di persone che avrebbero preso parte all’esperimento. Ovvio è che più il numero è grande e più l’esperimento ha valenza, ma da un punto di vista statistico 10 persone generalmente bastano per rendere veritiero l’esperimento.
Il problema, a questo punto, sta nel tipo di soggetti che si sono scelti per l’esperimento.
Non credo sia corretto dire che i soggetti che si prestano all’esperimento dovrebbero essere tutti “gemelli omozigoti che differiscono solo per la disciplina praticata”.
Se così fosse moltissimi casi di sperimentazione nell’ambito sportivo non sarebbero valide. Di fatti, quando si fa uno studio nell’ambito delle scienze motorie, se si scegli di esaminare soggetti fitness ci si rivolge a soggetti fitness, indipendentemente dall’attività che praticano (pesistica, nuoto, corsa, gag o altro), così come se ci si rivolge a atleti di sci non si sta a considerare le differenze di peso, altezza o quelle sociali in cui sono cresciuti, ma solo la fascia d’età e la specialità che praticano.
Ma in questo caso anche la differenziazione della disciplina praticata, a parer mio, non è così importante in quanto lo studio non era diretto a capire se una determinata arte marziale fosse più efficace di un’altra in strada, ma come i praticanti di arti marziali (in generale) reagisco a determinate dinamiche che sono tipiche dell’aggressione in strada.
Ciò detto ovviamente una distinzione per rendere il test veritiero credo sia da fare e ritengo che quella più corretta si sarebbe dovuta basare sul “modo” in cui si pratica l’arte marziale scelta, sul livello di esperienza (base, intermedio, esperto) e sulla fascia d’età.
È ovviamente diverso mettere in situazione di simulazione un agonista di kata o di forme, da un praticante amatoriale, da un pugile o un thai boxer in quanto sono “educati” e allenati in maniera del tutto differente. Così come dovrebbe essere differente far partecipare all’esperimento una cintura bianca da una cintura blu o una cintura nera.
Credo quindi che, con la giusta divisione in queste tipologie l’esperimento, anche se fatto con sole 10 persone, avrebbe avuto una qualche valenza.
Le simulazioni sono una bufala?
Persino i più allenati praticanti di arti marziali vengono ingannati dalle quattro “ D ” semplicemente perché esse non fanno parte del loro curriculum di addestramento. Perciò non comprendono il nemico che hanno di fronte e quindi non sono in grado di tradurre i segnali dell’inganno messo in atto per creare il necessario attimo di disorientamento.
Geoff Thompson
La conclusione che i risultati dell’esperimento siano errati in quanto “le persone testate erano al corrente di quello che sarebbe successo e quindi la paura e l’aggressività erano ben lontane dall’essere quelle della strada” è, a parer mio, assolutamente errata; concordo invece molto di più con il pensiero di Geoff Thompson espresso nel libro L’arte di combattere senza combattimento.
È senza dubbio vero che chi si presta ad un esercizio di simulazione sa che “è un esercizio svolto in sicurezza”, ma è anche vero che se la simulazione è interpretata correttamente da chi riveste i panni dell’aggressore l’esercitazione si avvicina moltissimo ad un contesto reale e le sensazioni di paura, ansia, adrenalina e stress che si scatenano distano poco da quelle che si possono avere in un aggressione in strada.
Se non ci credi vai a chiedere alle ragazze che seguono il mio corso di auto-protezione femminile globale, o a Roberto Cereda, ideatore del metodo IMPACT e vero e proprio guru della difesa personale femminile (nonché mio mentore a riguardo).
In queste metodologie le ragazze devono fare degli esercizi di simulazione di aggressione costruiti in una determinata maniera e, ti posso garantire, che anche se sono “solo degli esercizi”, per come viene interpretato il ruolo dell’aggressore e per il contesto in cui la simulazione si svolge, anche se le ragazze sanno che è “solo una simulazione”, l’esercizio diventa tutt’altro che facile e sensazioni che queste vivono sono molto vicine alla realtà.
Lo so, mi dirai, l’esempio non calza: sto parlando di ragazze che non hanno una preparazione marziale e che quindi sono distanti dall’esperienza e dalla preparazione di un marzialista. Benissimo, allora ti parlerò di Matteo S., un ragazzo che ha fatto il test per diventare istruttore della metodologia di auto-protezione femminile che insegno. Questo ragazzo era decisamente preparato sotto un punto di vista marziale: ex pugile, seguito per anni corsi di difesa personale e pratica MMA; inoltre, ha avuto anche qualche esperienza in strada. Quando abbiamo iniziato a parlare di difesa verbale, però, e si è trovato davanti una persona che gli gridava contro e all’impossibilità di colpirla in quanto il contesto non lo richiedeva è crollato.
Cosa voglio dire con questo? Che nella difesa personale l’aspetto psicologico è importante tanto quanto, se non addirittura di più, di quello tecnico/fisico e che gli esercizi di simulazione hanno una grandissima valenza se fatti in maniera corretta. Mi dispiace, ma sono nettamente convinto che se avrai dei problemi a gestire un esercizio di simulazione avrai anche problemi a gestire una reale aggressione in strada e che, la storia del “mi sono comportato così perché era un esercizio, un test, ma nella realtà mi sarei comportato diversamente”, è una facile scusa.
L’altra obiezione che viene fatta riguardo all’esperimento sta nel fatto che chi interpretava l’aggressore “oltre appunto alla maschera, era bardato di protezioni su tutto il corpo perché i marzialisti dovevano essere lasciati liberi di essere più efficaci possibili”.
Ora, perché una simulazione sia efficace deve avere le seguenti caratteristiche:
- L’aggressore deve avere tutte le protezioni necessarie per poter assorbire i colpi senza problemi così da preservare la sua incolumità e permettere a chi fa la simulazione di colpire con il massimo della forza;
- È assolutamente necessario che l’aggressore porti una un caschetto o una maschera così da spersonalizzarsi il più possibile. Sovente succede che durante le simulazioni chi deve difendersi si blocchi o non reagisca come dovrebbe in quanto vede o riconosce chi interpreta il ruolo dell’aggressore. Questo fa sì che si tenda a fermare i colpi, a trattenersi, perché ci si ricorda che è un esercizio, che si fa per finta e che quindi non si vuole fare male a chi interpreta l’aggressore. La maschera permette invece di non “cascare” in questo tranello e di far andare le simulazioni a buon fine.
- L’aggressore deve avere un tirocinio specifico alle spalle e deve comportarsi in maniera consona. Avendo le protezioni è ovvio che non sentirà i colpi come se non le avesse. Dovrà quindi mimare in modo corretto i colpi ricevuti, rispettando la balistica del corpo e accusando come se li avesse ricevuti sul serio. Dovrà inoltre muoversi e agire in maniera corretta a seconda del ruolo che interpreta evitando la sindrome dell’Highlander.
- Chi fa la simulazione la dovrà fare senza le protezioni. Questo per tenere alta la sua soglia di attenzione, per stare attento a non ricevere colpi e per percepire il dolore qualora venisse colpito; insomma per essere messo davvero in difficoltà ed avere un po’ di svantaggio. Mettere le protezioni al soggetto che esegue la simulazione farà falsare veramente i risultati dell’esercizio in quanto la simulazione, in questo caso, puotrebbe essere presa come un gioco.
In sostanza ritengo che lo studio fatto dalla Rocky Mountain Combat Application Training sia un test interessante che dovrebbe farci riflettere in quanto ha davvero degli spunti che ci permetterebbero di migliorare il nostro lavoro e che non sia del tutto da buttare via ma, anzi, potrebbe aprirci gli occhi su alcune lacune della nostra preparazione.
A presto,
Eugenio