Impara tutto sul karate e poi… dimenticalo

“Impara tutto sulla musica e sul tuo strumento, poi dimentica tutto sia sulla musica che sullo strumento e suona ciò che la tua anima detta”

Questa frase si può adattare perfettamente al karate. Sentite come:

“Impara tutto sul karate e sul tuo stile, poi dimentica tutto sul karate e sul tuo stile e pratica ciò che la tua anima detta”

Questo è, secondo me, il punto d’arrivo più alto a cui un karateka può aspirare.

Questo principio si applica in modo splendido al kumite, su cui farò una prossima puntata. Ma si adatta anche ai kata in un certo modo.

Perché? Perché il kumite è a tutti gli effetti l’improvvisazione del karate, proprio come nel jazz. Quando si improvvisa nel jazz, si parla con gli altri musicisti, ci si passa la palla, ci si incontra e si lavora insieme per creare qualcosa di nuovo, unico e irripetibile.

La cosa che adoro del jazz è che ogni performance è unica. Se viene registrata, si può riascoltare, ma non potrà mai più essere rifatta allo stesso modo. A meno che non si trascrivano tutte le note e si cerchi di ripetere tutte le improvvisazioni – ma non sarebbe più improvvisazione!

Questo ci ricorda il concetto di effimerità. Dobbiamo riuscire a goderci quello che stiamo facendo, essere presenti nel momento per poterlo vivere e assaporare. Oggi purtroppo stiamo perdendo questa capacità. Mentre facciamo una cosa, guardiamo il telefono. E mentre guardiamo il telefono, facciamo altre trenta cose.

Molto probabilmente anche tu ora stai ascoltando questa puntata mentre fai altro. E va bene così! Non sono io a giudicarti. Lo faccio anch’io con un sacco di podcast.

Il kumite come improvvisazione jazz

Una delle cose più belle dell’improvvisazione jazz è che ogni esibizione è unica. Ciò che accade in quel momento non può mai più essere rifatto allo stesso modo. Anche se registri, non potrai mai ricreare quella magia esatta.

Questo ci riporta al concetto di essere presenti nel momento. Oggi è una sfida. Mentre facciamo una cosa, controlliamo il telefono. E mentre usiamo il telefono, facciamo altre trenta cose. Forse anche tu ora stai ascoltando questo podcast mentre fai altro. Non ti giudico! Lo faccio anch’io con molti podcast.

Purtroppo, questa è una malattia della nostra società. Su Netflix ci sono persino linee guida che chiedono trame e dialoghi super chiari. Così chiari che devono dire ciò che accade in scena. Perché? Per far sì che chi guarda mentre fa altro possa comunque capire. Ci stiamo un po’ rincoglionendo, e questo mi dà un grande dispiacere.

Nel kumite per quanto possa sembrare strano avviene la stessa cosa perché kumite non vuol dire scontro ma vuol dire incontro di mani ed è proprio una pratica che ci porta ad entrare in grandissima intimità con il nostro avversario

La bellezza dell’improvvisazione jazz è che tutto accade lì, sul momento. Non sai cosa ci sarà prima, perché viene creato in quell’istante. Non sai cosa accadrà dopo, perché quando un musicista passa la palla – che sia il sassofonista al batterista, al chitarrista o al pianista – viene fuori qualcosa di totalmente inaspettato. C’è un dialogo, ci si parla, ci si incontra.

Questo è uno dei grandi poteri del jazz. E nel kumite accade la stessa cosa. Ricorda che kumite non significa “scontro” ma “incontro di mani”. È una pratica che ci porta a entrare in profonda intimità con il nostro avversario – non nemico, ma avversario.

Non parlo solo del kumite agonistico, ma di un kumite affrontato con sportività. Quando fai kumite, incontri davvero l’altra persona e, a volte, incontri anche te stesso. Devi imparare a conoscere l’altro e devi improvvisare. Non sai cosa farà lui, non sai cosa farai tu. Tutto è in divenire.

Magari quella soluzione tecnica, quel movimento, quel punto lo porti a casa quella volta sola. E riuscirai a farlo così solo in quell’occasione. Forse perché quel giorno avevi una grazia divina su di te, o perché hai letto bene il tuo compagno, o perché in quel momento ti sentivi ispirato.

È qualcosa di veramente effimero, proprio come l’improvvisazione. Non sai cosa succede prima, cosa succede durante, cosa succede dopo. A volte hai anche la fortuna del principiante. Mi è successo una volta a uno stage: ho fatto una cosa fantastica che non mi riuscirà mai più. Ma ho mantenuto un certo aplomb e me ne sono andato con stile!

I kata come i grandi standard musicali

I kata come standard musicali

I kata sono I nostri brani scritti, sono I nostri standard del jazz sono I nostri my funny Valentine I nostri take the A-Train o chi più ne più ne metta sono I nostri standard

I kata sono i nostri brani scritti. Sono i nostri standard del jazz, come “My Funny Valentine” o “Take the A-Train”. Sono i nostri standard su cui possiamo lavorare.

L’interpretazione personale dei kata

Con i kata, proprio come con gli standard jazz, possiamo interpretarli. Cosa vuol dire interpretare? Vuol dire che io eseguirò quel kata in modo diverso da te. Perché? Perché ho una sensibilità diversa, lo leggo in modo diverso, lo vivo in modo diverso.

Ho una storia, un punto di vista e una prospettiva completamente diversi dai tuoi. Questo non è né bene né male – mi dà solo la possibilità di mettere parte di me in ciò che faccio.

Nel karate Shotokan abbiamo ventisei standard (kata) e possiamo decidere di interpretarli giocando sui tempi, su alcuni passaggi, o modificando leggermente certi movimenti. Ma attenzione: l’interpretazione non deve essere fine a se stessa. Deve avere un perché, un significato.

Tra interpretazione e improvvisazione

Purtroppo, non possiamo improvvisare completamente sopra un kata. Si potrebbe fare, lo so… ma andremmo a toccare i sacri dettami dei maestri antichi. Anche se bisognerebbe vedere quanto siano davvero “antichi”!

In questo senso, i kata sono più simili a uno standard di musica classica. Possiamo interpretarli, ma dobbiamo restare in quei binari.

L’applicazione dei kata come improvvisazione

Ma l’improvvisazione arriva comunque nei kata quando li applichiamo, soprattutto quando applichiamo uno “jop” (applicazione pratica). A quel punto, quando smonti un kata e dici: “Io credo, in base alla mia esperienza, a quello che conosco, ho studiato, e in base a come mi sento fisicamente, che questo passaggio possa essere applicato così” – ecco che l’applicazione diventa più libera, più morbida e più slegata dai binari rigidi del kata.

Lì succedono cose meravigliose. Come nel jazz, possono accadere due cose:

  1. Puoi trovare quell’improvvisazione che dà carica, groove, sentimento ed emozione in più a quel passaggio
  2. Oppure – e questo lo vedo un po’ in giro ultimamente, permettetemi questa stilettata un po’ acida – può diventare un semplice esercizio di stile, fine a se stesso.

Il percorso di apprendimento: dalla tecnica all’improvvisazione

A volte nel jazz vedo musicisti che fanno cose tecnicamente super complesse. Sono bravi, certo. Ma dopo un po’ mi stufano. Fanno passaggi difficilissimi che però diventano solo esercizi di stile. Tu dici “bravo, bravo” ma dentro pensi “mi hai un po’ rotto i maroni”. Perdi interesse.

Forse non ho un livello di comprensione del jazz così alto. Ma so che a un certo punto premo “skip” e passo al brano dopo. Sei bravo, ma mi hai annoiato.

Purtroppo vedo la stessa cosa in alcune applicazioni dei kata. Non so se è solo una mia idea – fatemi sapere cosa ne pensate. Mi pare che certi insegnanti cerchino di stupire con applicazioni bellissime e tecnicamente complesse. Sono impressionanti, ma spesso inapplicabili nella vita reale. Sembrano tirate per i capelli. Diventano puro esercizio di stile.

Dalle basi all’improvvisazione

Bisogna fare proprio come nella musica cioè imparare prima lavorare sulle tecniche di base che nella musica sono le note lunghe

Per arrivare a improvvisare bene, dobbiamo seguire il consiglio di Charlie Parker: “Prima impara tutto sul karate e sul tuo stile”.

Cosa vuol dire? Bisogna fare come nella musica. Si parte dalle tecniche di base.

Nel sax, per esempio, si lavora sulle note lunghe. Impari a tenere una nota pulita, senza che salga o scenda. Poi passi alle scale e agli arpeggi – che sono i nostri kihon nel karate. Dopo lavori sui brani – i nostri kata. E solo alla fine arrivi all’improvvisazione.

Bisogna seguire questi passi. Non c’è altra via. Non puoi saltare dritto all’improvvisazione.

Pazienza e pratica

So che il jazz è nato in modo istintivo, quasi caotico. E mi sono spesso chiesto: “Perché bisogna imparare tutta questa roba tecnica?”

Ma la verità è che senza basi tecniche solide, fai molta più fatica. Devi fare esercizio.

Quindi bisogna allenarsi: note lunghe (o kihon), scale e arpeggi (sempre kihon), brani (kata). Solo così arrivi al kumite e al bunkai (l’applicazione pratica).

Il problema è che questo approccio molto giapponese – e in un certo senso molto italiano – alla musica può fregarci. Ci tiene legati, ci impedisce di essere liberi.

Come diceva il mio amico Gianluca, dobbiamo imparare le regole per poi saperle rompere. Ma prima, dobbiamo conoscerle bene.

Liberarsi dalle catene della tradizione

Liberarsi dalle catene della tradizione

Quando studiavo, mi prese sotto la sua ala un carissimo signore di Torino. Era un batterista jazz professionista e un appassionato di sax. Si occupava di revisionare e sistemare sassofoni, soprattutto quelli vintage. Una persona fuori di testa!

Da ragazzino, intorno ai sedici anni, era andato in America a studiare batteria alla Berkeley School. Dopo aver completato il suo percorso di studi, era tornato in Italia.

Mi raccontava che gli americani, nell’insegnamento della musica, hanno l’obiettivo di farti trovare il tuo modo di suonare, il tuo groove, il tuo approccio personale. Noi italiani, invece, con la nostra grande tradizione di musica classica e operistica, siamo molto tecnici e bravi, ma leghiamo le persone alla tradizione. Le imbrigliamo, le incateniamo.

Una violinista professionista che veniva da noi anni fa, Sofia, mi diceva la stessa cosa: “Per me improvvisare è difficilissimo, non so da che parte girarmi!”

Il mio amico Gianluca diceva proprio questo: fate attenzione sia a studiare le tecniche, le scale, gli arpeggi, i metodi, ma occhio! Bisogna essere anche in grado di staccarsi da quella roba.

L’approccio tradizionale come limite

L’approccio iper-tradizionale del karate richiama molto questo modo di studiare la musica. Vi propongo un esercizio: invece di fare il kata Chion come lo conoscete, provate a contare fino a dieci e a ogni numero fate una tecnica libera. Improvvisate un Chion!

È una cosa bellissima, ma difficilissima. Pochi ci riescono. Perché? Perché siamo imbrigliati in questo schema: il maestro dice, l’allievo fa. “Giusto, maestro?” “Maestro dice, allievo fa.”

Così rimaniamo sempre legati a questi binari. E quando i binari non ci sono più, quando la cintura di sicurezza sparisce, non sappiamo cosa fare.

Trovare la propria voce

Se volete iniziare a lavorare su questi principi, cercate di metterci del vostro. Quando e come dovete deciderlo voi, in base alla vostra esperienza, all’insegnante e a ciò che volete.

Io spesso chiedo ai miei ragazzi: “Fatemi vedere secondo voi questa cosa che cos’è?” Ognuno tira fuori il suo. Qualcuno propone cose molto belle, qualcuno cose senza senso. Ma non importa! Ci si prova. È una figata perché aiuta a uscire dai binari e a lavorare in modo diverso.

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Eugenio

Dal 2009 Eugenio Credidio contrabbanda karate autentico ad Alessandria e nel web e insegna a riconoscere, prevenire e combattere la violenza. Oltre al sui dojo di Alessandria gestisce il canale YouTube di karate tradizionale più seguito d'Italia. Ha ideato il metodo di autodifesa Urban Budo che è stato riconosciuto dal CONI nel 2019. Nel 2013 ha pubblicato assieme al Maestro Balzarro, "On the road" per la OM edizioni e, nel 2020, "Passeggiando per la Via - Storia, riti e gesti del karate".

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