Quando è necessario fare un passo indietro
Valeria mia moglie mi cazzia molto spesso in merito al fatto che quando parlo di alcuni argomenti sensibili argomenti caldi se vogliamo chiamarli così che a me toccano particolarmente nel profondo io mi infiammmo e inizio a parlare senza la cura e l’attenzione che dovrei avere e rischio che il mio messaggio venga frainteso
Ammettere i propri errori non è mai facile, soprattutto quando si tratta di dare ragione alla propria moglie. Eppure eccomi qui, a fare esattamente questo. Valeria, mia moglie, mi rimprovera spesso per come affronto certi argomenti che mi stanno particolarmente a cuore. Quando parlo di temi sensibili che mi toccano nel profondo, tendo ad infiammarmi e a parlare senza quella cura e quell’attenzione che sarebbero necessarie. Il risultato? Il mio messaggio rischia di essere frainteso, soprattutto da chi non mi conosce bene.
Mi succede sempre quando parlo di sicurezza personale o di difesa personale femminile – si accende un fuoco in me e inizio a parlare senza filtri, senza considerare realmente chi ho di fronte. E purtroppo, l’episodio di Karatepedia che ho pubblicato qualche settimana fa sul karate e l’ADHD è la dimostrazione lampante che mia moglie ha ragione.
Dopo aver pubblicato la puntata sul karate di HD mi sono arrivata una serie di messaggi che mi hanno fatto capire che il mio messaggio il mio contenuto per colpa mia assolutamente mia non c’entrate niente voi in comunicazione è sempre chi emette il messaggio che l’onere e il dovere di far sì che questo messaggio sia comprensibile
Questa puntata è particolarmente difficile per me, per due motivi: primo, devo fare una ritrattazione; secondo, devo dare ragione a mia moglie – e credetemi, non è una cosa semplice! Ma dopo aver pubblicato quel contenuto sul karate e l’ADHD, ho ricevuto numerosi messaggi che mi hanno fatto capire che il mio messaggio non è arrivato come avrei voluto. Anzi, è passato un messaggio completamente diverso.
In comunicazione, è sempre chi emette il messaggio ad avere l’onere e il dovere di far sì che questo sia comprensibile. Non si può dare niente per scontato. E io ho fallito in questo. Per colpa mia, assolutamente mia – voi non c’entrate nulla.
Non solo il messaggio è stato frainteso, ma grazie ai ragazzi della community online dei pirati del karate, ho scoperto di aver detto anche delle inesattezze. E cosa si fa in questi casi? Prima di tutto, ci si assume le proprie responsabilità per quanto detto, perché è giusto che sia così. Poi si chiede scusa e, soprattutto, si fa una bella ritrattazione.
La community dei pirati del karate: un luogo di dialogo costruttivo

Dopo aver pubblicato l’episodio sul karate e l’ADHD un paio di settimane fa, molte persone all’interno di questa community mi hanno contattato e, in tutta franchezza, mi hanno bacchettato. Ma lo hanno fatto in modo splendido, e questo è proprio ciò che rende questa community così unica.
Noi invece parliamo un sacco. Noi dialoghiamo nel senso reale del termine cioè cerchiamo di far sì che quando ci scambiamo opinioni, pareri, punti di vista o altro le altre persone si relazionino e si cerchi di crescere assieme.
Al contrario di quanto accade spesso online, soprattutto nei gruppi legati alla nostra disciplina dove il dialogo costruttivo è quasi impossibile, la nostra community è un luogo dove la comunicazione è autentica. Non si tratta di scontri o di chi ha ragione, ma di un vero e proprio dialogo finalizzato alla crescita collettiva.
Quando tu sei convinto magari di avere delle conoscenze corrette in merito a un determinato problema, un determinato argomento e c’è qualcuno che è più competente di te su questo, giustamente questa persona alza la manina e dice guarda Eugenio, io ho capito quello che volevi dire, ma sappi che le cose non stanno esattamente così.
È esattamente quello che è successo dopo la pubblicazione dell’episodio sull’ADHD. Alcuni membri della community mi hanno fatto notare che, nonostante le mie buone intenzioni, il messaggio non è arrivato come avrei voluto. E questo mi ha rincuorato enormemente, perché loro mi conoscono e sanno che non c’era nulla di malevolo nelle mie parole. Al contrario, voleva essere uno sprone per le persone che affrontano quotidianamente determinate condizioni e problematiche.
Conoscendo le mie buone intenzioni, sono venuti subito in mio supporto. Certo, qualcuno l’ha fatto in maniera un po’ “ruvida” – per usare un termine gentile – ma nel momento in cui ci siamo confrontati, i toni si sono appianati e abbiamo potuto fare un bellissimo lavoro insieme.
Devo ammettere che ho questa problematica: essendo una persona molto assertiva, convinta della bontà delle proprie idee, tendo a volte a essere un po’ prevaricante senza nemmeno rendermene conto, sempre in buona fede. Ma la cosa positiva è che ho una community che sa correggermi con rispetto e che comprende le mie reali intenzioni.
Questa è la vera forza dei pirati del karate: la capacità di dialogare in modo costruttivo, di correggersi a vicenda senza attaccare la persona, ma aiutandola a migliorare il proprio messaggio e la propria comprensione. È un luogo dove si cresce insieme, dove l’errore non è motivo di vergogna ma opportunità di apprendimento.
Se stai cercando un ambiente dove poter parlare liberamente di karate, dove poter condividere le tue esperienze e imparare dagli altri in un clima di rispetto reciproco, ti invito a unirti alla nostra community su Telegram. Abbiamo anche una newsletter dove condividiamo risorse, approfondimenti e aggiornamenti regolari.
Cos’è l’ADHD: chiarimenti e precisazioni
L’ADHD è una neurodivergenza quindi come tale mi è stato spiegato da chi ne sa più di me intanto è una condizione genetica e non è una condizione che si può attivare in noi e deve essere diagnosticata
L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) è una neurodivergenza. Come mi è stato spiegato da chi ne sa più di me, si tratta innanzitutto di una condizione genetica. Questo è un punto cruciale: non è qualcosa che “si attiva” a un certo punto della vita, ma è una condizione con cui si nasce, perché cambia proprio l’assetto all’interno del nostro cervello.
Un altro aspetto fondamentale è che l’ADHD deve essere diagnosticata da professionisti qualificati. E qui arriviamo a un problema che ho riscontrato spesso nella mia esperienza: mi sono trovato di fronte a genitori che mi hanno detto che i loro figli o le loro figlie avevano l’ADHD, ma questa condizione non era mai stata diagnosticata ufficialmente. Erano stati fatti dei test a scuola dagli insegnanti, ma questo non è sufficiente.
Da quello che mi è stato detto dai ragazzi della community, l’ADHD, così come altre condizioni, deve essere diagnosticata da un professionista – un terapista che ha tutta una serie di conoscenze, competenze e test specifici per identificarla correttamente. Non si tratta di una valutazione che può essere fatta in modo approssimativo o da persone non qualificate, per quanto ben intenzionate.
Se io mi trovo davanti a questo punto nel Dojo con un ragazzino con ADHD e sono sicuro che abbia l’ADHD io dovrò aiutarlo il più possibile a trovare tutta una serie di escamotage per permettergli di raggiungere I risultati che desidera raggiungere o che sono importanti per lui
Questa distinzione crea un importante spartiacque tra chi effettivamente ha questa neurodivergenza e deve farci i conti tutti i giorni, e chi invece ha semplicemente un deficit di attenzione che può essere gestito in modo diverso. Un deficit di attenzione può essere causato da mille fattori diversi e richiede approcci specifici.
Perché è così importante questa differenza? Perché cambia radicalmente il modo in cui dobbiamo approcciarci alla persona. Se mi trovo nel Dojo con un ragazzino con ADHD diagnosticato, dovrò aiutarlo a trovare tutta una serie di strategie ed escamotage per permettergli di raggiungere i risultati che desidera o che sono importanti per lui, tenendo conto della sua specifica neurodivergenza.
Ma se invece mi trovo davanti a un “possibile ADHD” perché gli insegnanti hanno fatto qualche test informale, la situazione è completamente diversa. In questo caso, sarebbe opportuno approfondire e studiare questa possibile condizione, magari suggerendo ai genitori di consultare uno specialista. Solo così potremo capire se il ragazzo o la ragazza ha semplicemente difficoltà a mantenere l’attenzione o se realmente presenta una condizione di neurodivergenza.
Il modo di lavorare e di approcciarsi con queste persone cambierà in maniera drastica in base alla diagnosi. Non si tratta solo di una questione terminologica, ma di rispetto verso chi convive quotidianamente con questa condizione e di efficacia nel nostro intervento educativo.
Ecco perché è fondamentale essere precisi quando parliamo di queste condizioni, evitando generalizzazioni o autodiagnosi che possono portare a interventi inappropriati o inefficaci.
Non lasciare che la tua condizione ti definisca
Il mio pensiero non era e non voleva essere che chi una neurodivergenza conclamata non si applica abbastanza e non deve rompere le palle perché la neurodivergenza eccetera eccetera eccetera ma voleva essere più uno sprone ma non uno sprone per dirvi ragazzi non fate abbastanza impegnatevi di più ma uno sprone a dirvi non fatevi fregare
Voglio essere molto chiaro su questo punto: l’approccio che dobbiamo adottare con persone che presentano neurodivergenze come l’ADHD deve essere differenziato. Con chi non ha una neurodivergenza conclamata, probabilmente dovrò lavorare per aiutarlo a trovare degli escamotage per mantenere la concentrazione. Con chi invece ha una condizione conclamata, dovrò agire in maniera differente, aiutandolo a trovare quelle strategie specifiche che gli permettano di ottenere il meglio da ciò che può fare.
Ma attenzione, questo è il messaggio centrale che voglio trasmettere oggi: non era e non voleva essere mia intenzione dire che chi ha una neurodivergenza conclamata non si applica abbastanza. Il mio voleva essere uno sprone, ma non nel senso di “ragazzi, impegnatevi di più”, bensì uno sprone a dire “non fatevi fregare”.
Nella mia esperienza, purtroppo, mi sono trovato spesso di fronte a ragazzi, ragazzini e bambini che, a causa prevalentemente degli adulti che avevano attorno, venivano affossati e non provavano neanche a fare determinate cose “perché tanto avevano l’ADHD”. Ed è qui che entra il mio discorso fondamentale: la tua condizione non definisce chi sei.
Il fatto di avere una determinata condizione qualunque essa sia non dovrebbe ovviamente nei limiti del possibile perché ci sono condizioni che certe cose non potrò mai non mi permetteranno mai di fare ok?
Cosa intendo dire? Che il fatto di avere una determinata condizione, qualunque essa sia, non dovrebbe – ovviamente nei limiti del possibile – definire completamente ciò che possiamo o non possiamo fare. Certo, esistono condizioni che oggettivamente impediscono di fare certe cose: se sono nato paraplegico e non posso camminare, non potrò mai pensare di riuscire a correre. Ma potrò comunque, tramite degli escamotage, arrivare alla cosa più vicina possibile alla corsa.
Il punto centrale è questo: se io ho una determinata condizione, non devo far sì che questa condizione detti le leggi alla mia vita. Piuttosto, se ci tengo a fare qualcosa, se ci tengo a ottenere un determinato risultato, dovrò fare tutto il possibile per raggiungerlo nei limiti che questa condizione mi consente, senza partire già dal presupposto “tanto io quella cosa non riesco a farla perché ho questa condizione”.
È un messaggio di empowerment che voglio trasmettere, non di critica. Non sto dicendo che le persone con neurodivergenze non si impegnano abbastanza, ma che non dovrebbero permettere che queste condizioni diventino delle etichette limitanti che impediscono loro di provare, di sperimentare, di cercare strade alternative per raggiungere i propri obiettivi.
Troppe volte ho visto adulti – genitori, insegnanti, allenatori – scoraggiare giovani con determinate condizioni, facendo loro interiorizzare l’idea che “tanto non ce la possono fare”. Questo è esattamente ciò contro cui voglio lottare. Riconoscere i propri limiti è importante, ma farsi definire completamente da essi è un errore che può condizionare negativamente tutta la vita.
La sfida è trovare strategie personalizzate, adattamenti, approcci alternativi che permettano a ciascuno di esprimere il proprio potenziale, nonostante – e a volte grazie a – le proprie caratteristiche uniche.
L’importanza della comunicazione aperta
Ci tengo particolarmente a sottolineare questo aspetto perché, purtroppo, mi sono trovato spesso davanti a ragazzi e ragazze talentuosissimi, probabilmente con condizioni come l’ADHD, che venivano completamente affossati dagli adulti che avevano vicino. “Tanto tu hai l’ADHD, non ci provare neanche, non ce la fai perché hai quella condizione”. Ma no, cazzarola!
A parte che così ammazziamo la loro autostima, ma perché entrare a gamba tesa in questo modo? Non possiamo invece chiederci: “Cosa possiamo fare per aiutarti a raggiungere quell’obiettivo?”. Noi dovremmo essere guide, aiutare le persone che devono convivere con determinate condizioni a trovare le strategie per riuscire comunque ad arrivare ai risultati che desiderano.
Ilaria non mi mai detto non ce la fa io ho questa cosa qui quindi non ce la farò mai Ilaria mi sempre detto io ci provo, io ritento, magari ci metto di più, magari dammi una mano, lavoriamo assieme per trovare un modo per riuscirci
Mi ricordo di una ragazza che veniva nel mio dojo tanti anni fa, Ilaria. Non ricordo con precisione se avesse a che fare con discalculia o disgrafia, comunque c’era una qualche condizione che le rendeva molto difficile imparare i kata, perché per lei era complicato coordinare certi movimenti e ricordarsi le sequenze.
Ma Ilaria non mi ha mai detto: “Non ce la faccio, ho questa condizione quindi non ce la farò mai”. Al contrario, mi ha sempre detto: “Io ci provo, io ritento, magari ci metto di più, magari dammi una mano, lavoriamo insieme per trovare un modo per riuscirci”. Aveva bisogno dell’imbeccata qualche volta, ma poi i suoi esami fino alla cintura verde (perché poi è andata all’università) li ha fatti senza battere ciglio, eseguendo tutti i suoi kata.
È questo che intendo quando dico di non usare la condizione con cui si convive come uno scudo, come una scusa. Provateci lo stesso! E soprattutto voi genitori, voi adulti, noi insegnanti, facciamo qualcosa per aiutare queste persone. È veramente triste fargli rinunciare a occasioni, passioni, interessi solo perché “tanto hai quella condizione”.
Alle volte, e scusatemi l’estremo cinismo, ho la sensazione che sia una bella scusa per chi sta vicino a queste persone, perché così non c’è “una rottura di palle” da dover gestire. Oppure perché così, e qui mi arriverà uno shitstorm della madonna, lo so già, il genitore di turno si sente meno giudicato.
Ma ragazzi, nessuno giudica voi come genitori, nessuno giudica voi come insegnanti, ma diamogli una mano! Non tarpiamo loro le ali, diamogli sicurezza in se stessi, aiutiamoli. Perché di sicuro chiunque può fare delle cose straordinarie, però se l’ambiente non è fertile, allora casca tutto.
È un po’ come la famosa storia dell’albero più grande del mondo, il Generale Sherman in America, che è una sequoia gigantesca. È lo stesso seme delle altre sequoie, ma come mai quella sequoia è diventata così grande? Perché l’ambiente in cui quel seme è stato piantumato era così fertile, così ricco che gli ha dato la possibilità di diventare quella meraviglia.
Ecco, è questo! Il seme lo dobbiamo curare, gli dobbiamo dare nutrimento, non dirgli “tanto sei un bonsai, non potrai mai diventare una quercia”. Tu diventa una quercia, magari diventi una quercia bonsai, ma una quercia bonsai è cazzutissima! Aiutiamoli ad arrivare al loro apice se vogliono arrivare al loro apice, e non tarpiamo loro le ali.
Così come voi ragazzi e ragazze, cercate di non ascoltare queste persone e di non usare la vostra condizione come scudo per non fare le cose che vi appassionano, per non provarci neanche. Andate sul tatami, se parliamo di karate, e fate il vostro meglio. Parlate con l’insegnante e ditegli: “Guarda, Sensei, mi hanno diagnosticato l’ADHD o queste problematiche”.
E grazie a Dio, da insegnante io lo dico, grazie a Dio che me lo dici! Perché a quel punto mi è anche più facile interagire con te. Magari io vedo nel tuo atteggiamento qualcosa di scostante, poco attento e altro, ma non è così. Quindi andiamo su una sorta di dissonanza che non ci aiuta.
Giocare a carte scoperte è un’altra cosa meravigliosa che spesso non avviene da parte dei genitori perché poi tu magari trovi il bambino che delle grandi difficoltà, parli col genitore il genitore a quel punto dopo tre mesi dove tu hai tirato tutti I santi giù dal paradiso per cercare di capire come mai quel bambino non riesce a fare le cose
Invece, giocare a carte scoperte è un’altra cosa meravigliosa che spesso non avviene da parte dei genitori.
Può capitare che ti trovi con il bambino che ha delle grandi difficoltà. Provi strategie, sperimenti, tenti e niente, non riesci a dargli una mano.
A quel punto parli col genitore, e il genitore, dopo tre mesi di attività, ti dice: “Ha l’ADHD conclamata!”.
Non me lo potevi dire prima? Avarei potuto agire diversamente e, magari, senza volere, in quei tre mesi ho fatto dei danni perché l’ho avvilito, o ho avuto dei comportamenti irrispettosi nei suoi confronti perché non sapevo quella cosa.
La comunicazione aperta è fondamentale in questi casi. Non si tratta di etichettare o limitare, ma di creare le condizioni migliori perché ciascuno possa esprimere il proprio potenziale. Quando tutti – allievi, genitori e insegnanti – giocano a carte scoperte, diventa possibile costruire percorsi personalizzati che valorizzano i punti di forza e supportano nelle aree di difficoltà.
Ricordiamoci sempre che ogni persona è unica, con il proprio mix di talenti, sfide e possibilità. Il nostro compito, come insegnanti e come adulti di riferimento, è quello di creare l’ambiente più fertile possibile perché ogni seme possa crescere al meglio delle sue possibilità.
Il ruolo di genitori e insegnanti

Cosa possono fare genitori e insegnanti per supportare al meglio le persone con neurodivergenze? Prima di tutto, non bisognerebbe mai vergognarsi di chi siamo, con i nostri limiti, con i nostri aspetti positivi e con quelli negativi. Siamo un unicum fatto di luci e ombre, di bene e male, di cose belle e di cose brutte.
E so che questa può sembrare retorica di bassa lega, ma è una grande verità. Oggi cerchiamo sempre di far vedere quanto siamo splendidi, quanto siamo forti, quanto siamo eccezionali. Forse anche per colpa di questi smartphone e dei social media, siamo spinti a mostrare sempre la nostra versione migliore: invincibili, bellissimi, infallibili. Ma le cose non stanno così.
Entrare in contatto con i nostri limiti, con le nostre parti più “negative”, è una grande occasione di crescita. Anche se, a dire il vero, di negativo qui non c’è un bel niente.
Non vergogniamocene. Se avete determinate condizioni parlatene. Genitori, se I vostri figli hanno determinate condizioni parlatene!
La comunicazione aperta è fondamentale. Perché magari voi genitori avete già affrontato certe situazioni che poi anche noi insegnanti dobbiamo gestire. E qui sta la bellezza di non essere nella scuola dell’obbligo: a meno che non vi troviate in un dojo super spinto verso l’agonismo, dove tutti devono essere campioni, a noi dei risultati agonistici dei ragazzi interessa relativamente poco.
Almeno per quanto mi riguarda, non mi importa quanto tempo ci mettono a prendere una cintura, né del programma che devono portare avanti per ottenerla. Quello che conta davvero per i bambini e per i ragazzi è aiutarli a crescere. Quindi, nel momento in cui ho conoscenza di determinate condizioni, posso fare tutto quello che è nelle mie competenze per aiutarli a gestire certe situazioni.
La scuola, purtroppo, è obbligata a puntare sui voti, sullo svolgimento del programma e su tutta una serie di cose che possono mettere pressione. Il karate, invece, lo fai per tutta la vita! Quindi se ci metti un anno o tre per prendere una cintura, chi se ne frega? L’importante è che questo percorso ti porti a crescere, a migliorare e a diventare una persona più completa.
Se il programma tecnico è X ma il ragazzo determinate difficoltà ma chi se ne frega il programma tecnico diventerà Y perché per lui comunque è sfidante la giusta sfida devono avere le persone per poter crescere
Questo è un punto cruciale: l’adattamento. Se il programma tecnico standard è X, ma un ragazzo ha determinate difficoltà, chi se ne importa! Il programma diventerà Y, perché l’importante è che sia comunque sfidante nella giusta misura. Le persone hanno bisogno della giusta sfida per poter crescere.
Ma se io non sono a conoscenza che quella determinata persona ha, diciamo, un “malus” – nel senso di una difficoltà maggiore a fare certe cose – come posso dosargli la giusta sfida? Per questo è fondamentale parlarne apertamente.
Non c’è nulla di cui vergognarsi, nulla che debba essere stigmatizzato, anche se purtroppo spesso accade. E voi genitori, non vergognatevene neanche voi! Non è certamente una vostra mancanza il fatto che un ragazzo o una ragazza abbia una neurodivergenza.
Parlatene, siate chiari, ma soprattutto spronateli, non affossateli. Non ditegli “Ma tu hai…” o “Ma tanto…”. Quando sento queste frasi, se potessi (ma mi ingabbierebbero), mi alzerei e darei due schiaffi ai genitori! No, non è questo l’approccio giusto.
Dategli quel po’ di fiducia di cui hanno bisogno, non facciamogli costruire castelli in aria, va bene. Ma dateglielo quella fiducia cazzarola.
La fiducia è essenziale. Non si tratta di fargli costruire castelli in aria o di creare false aspettative, ma di dare loro quella fiducia di cui hanno disperatamente bisogno per affrontare le sfide quotidiane.
Il nostro ruolo come adulti – genitori o insegnanti che siamo – è quello di creare un ambiente in cui ogni persona possa esprimere il proprio potenziale, indipendentemente dalle sue caratteristiche. Non dobbiamo permettere che le etichette o le diagnosi diventino gabbie, ma piuttosto usarle come strumenti per comprendere meglio e supportare in modo più efficace.
Nel dojo, questo significa adattare il programma, personalizzare l’insegnamento, dare il tempo necessario a ciascuno per progredire al proprio ritmo. A casa, significa credere nelle capacità dei propri figli, spronarli senza metterli sotto pressione, aiutarli a trovare strategie efficaci per superare le difficoltà.
Ricordiamoci sempre che ogni persona è unica, con il proprio mix di talenti, sfide e possibilità. Il nostro compito è quello di creare l’ambiente più fertile possibile perché ogni seme possa crescere al meglio delle sue possibilità, proprio come la sequoia gigante che diventa tale non solo per il suo DNA, ma anche per l’ambiente in cui cresce.
La necessità di formazione per gli insegnanti

Ho visto ragazzi con condizioni veramente complesse fare cose straordinarie, cose che io non sarei minimamente in grado di fare. E sai perché riescono? Per due motivi fondamentali: primo, perché hanno dentro un motore potentissimo che qualcuno ha saputo alimentare; secondo, perché hanno ricevuto fiducia da parte degli altri.
È proprio questo il punto cruciale: dobbiamo dare fiducia a questi ragazzi. Non dobbiamo affossarli, non dobbiamo avere paura noi per loro. Loro sono forti, loro sanno gestire le cose – o possiamo insegnare loro come fare. Non possiamo proteggerli da tutto, e affossarli certamente non è una buona strategia per proteggerli da qualcosa. Dategli fiducia, è questo che serve.
Noi insegnanti invece dovremmo forse uscire un po’ dal discorso che Giggino deve diventare bravo a fare I calci, deve diventare bravo a fare I kata o deve diventare deve sapere tutto il programma memoria per la cintura gialla, ma dovremmo un attimino capire meglio determinate problematiche e aiutare le persone a gestirle
Ma noi insegnanti abbiamo una grande responsabilità in questo processo. Dovremmo forse uscire un po’ dalla mentalità che il nostro compito principale è fare in modo che Giggino diventi bravo a fare i calci, bravo a fare i kata o che sappia a memoria tutto il programma per la cintura gialla. Dovremmo invece sforzarci di capire meglio determinate problematiche e aiutare le persone a gestirle.
Come? Cercando di creare un dialogo con loro, mettendoci a tavolino e dicendo: “Allora, cosa possiamo fare? Qual è la tua difficoltà? C’è qualcosa che ti può aiutare? In che modo posso esserti utile?”. La comprensione si basa sempre su questo tipo di dialogo.
Certo, se io penso che Giggino, per quanto io lo corregga, fa solo cazzate e non gliene importa nulla, allora il dialogo non si crea. Ma allo stesso tempo, devo sapere se Giggino deve gestire una particolare condizione, perché altrimenti mi manca un tassello fondamentale per aiutarlo davvero.
Ed è qui che entra in gioco un aspetto cruciale: la formazione degli insegnanti. Ci dovrebbero essere dei percorsi formativi specifici, degli eventi che ci aiutino e ci diano più strumenti per lavorare su questi aspetti. Perché, per quella che è la mia esperienza e per quello che ho visto nel percorso formativo di mia moglie (che lo sta completando proprio in questo periodo, quindi è sicuramente più aggiornato rispetto a quelli che ho fatto io – il mio ultimo percorso formativo nel karate risale a quando avevo ventidue anni, quindi quindici anni fa), mancano proprio queste parti.
Mancano persone davvero competenti che non arrivano lì e ti fanno la lezioncina utilissima ma che poi non ti danno gli strumenti per lavorare nella giungla
Mancano persone davvero competenti che non si limitino a farti la lezioncina teorica, per quanto utile possa essere, ma che ti diano anche gli strumenti concreti per lavorare “nella giungla”, come dice il mio amico Giovanni. Perché alla fine è tutta bella la teoria, ma se non hai gli strumenti attuativi, se non hai il materiale da poter prendere e mettere in pratica quando sei con i ragazzi, non serve a niente.
Ecco perché credo fermamente che sia necessario ripensare la formazione degli insegnanti di karate, e probabilmente di qualsiasi disciplina sportiva. Non basta conoscere la tecnica, non basta saper eseguire perfettamente un kata o un calcio. Bisogna anche saper comprendere le persone che abbiamo davanti, le loro peculiarità, le loro difficoltà, e trovare insieme a loro il modo migliore per farle progredire.
Solo così potremo davvero dire di essere insegnanti completi, capaci non solo di trasmettere una tecnica, ma di formare persone. Perché alla fine, è questo il vero scopo del karate: non creare campioni, ma aiutare ciascuno a diventare la migliore versione di sé stesso, con le proprie caratteristiche, i propri limiti e le proprie potenzialità.
La strada è ancora lunga, ma sono convinto che, con la giusta formazione e il giusto approccio, possiamo fare la differenza nella vita di tanti ragazzi e ragazze che si avvicinano al karate con entusiasmo e passione, indipendentemente dalle loro condizioni o difficoltà.
Conclusione: non lasciare che le condizioni dettino la tua vita

Spero di essere riuscito a condividere in maniera più precisa il mio pensiero con voi. Mi dispiace davvero che il mio precedente podcast abbia urtato la sensibilità di alcune persone – vi assicuro che non era questa la mia intenzione.
Non usiamo le condizioni che viviamo come scudo per tirarci indietro
Il messaggio che volevo trasmettere è semplice: non minimizziamo le nostre condizioni, ma al tempo stesso non usiamole come scudo per tirarci indietro. Voglio farvi un ultimo esempio, molto crudo ma che credo possa essere utile per comprendere meglio quello che intendo.
Se io dovessi avere e spero di no ma se mai un giorno dovessi avere un cancro non sarà quel cancro che definirà chi è Eugenio sarò io che cercherò in base alla mia condizione di continuare a essere Eugenio nei limiti che quella condizione ovviamente mi può far vivere
È lo stesso esempio che ho fatto nell’ultima newsletter. Se io un giorno dovessi avere un cancro – e spero di no – non sarà quel cancro a definire chi è Eugenio. Sarò io che cercherò, in base alla mia condizione, di continuare a essere Eugenio nei limiti che quella condizione ovviamente mi può far vivere.
Non accetterei, suppongo, il fatto che “ho il cancro e quindi quella cosa non la posso fare”. Probabilmente direi: “Ho il cancro, quella cosa la faccio come riesco, ma non accetto che il cancro mi precluda di fare quella cosa a priori”.
Diamogli il giusto spazio fanno parte di noi ma non devono essere loro che dettano I termini della nostra vita ciò che noi possiamo diventare, ciò che noi possiamo essere e come viviamo
È questo che intendo quando dico di non lasciare che siano le condizioni a definirci. Diamo loro il giusto spazio – fanno parte di noi – ma non devono essere loro a dettare i termini della nostra vita, ciò che possiamo diventare, ciò che possiamo essere e come viviamo.
Questo è quello che credo io, partendo da una condizione privilegiata, e spero con tutto il cuore di essere riuscito a spiegarmi in maniera più precisa e corretta, e di aver sistemato l’involontario pasticcio che ho fatto, facendo uscire un messaggio impreciso.
Sarei davvero felice di avere un vostro feedback in merito a questa puntata, perché ci tengo particolarmente. E se fosse necessario, ne farò una terza – non mi importa, voglio che le cose siano chiare. Sto cercando comunque di contattare dei professionisti molto più competenti di me per parlare proprio di questi argomenti, perché ho visto essere di grande interesse.
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